di Roberto Sinibaldi
Dall’arcadia al boom
I
Castelli Romani, celebrati già dall’antica
Roma, poi dai papi, e ancora traguardo
prediletto del Grand Tour, fino a diventare meta celeberrima della gita fuori porta, qualche decennio fa
si presentavano intatti dal punto di vista paesaggistico e in equilibrio dal
punto di vista ambientale.
I laghi praticamente non conoscevano il turismo, erano considerati quasi dei luoghi misterici e interi versanti collinari erano coperti da fitti boschi.
I laghi praticamente non conoscevano il turismo, erano considerati quasi dei luoghi misterici e interi versanti collinari erano coperti da fitti boschi.
I
Castelli avevano conosciuto da sempre una grande presenza dell’uomo, ma fino ad
allora si era sedimentata soprattutto nei paesi, al di fuori c’erano le
campagne, i boschi e le colline. La loro progressiva riscoperta, all’indomani della
motorizzazione di massa e delle successive
nuove sensibilità ambientali, aprì
delle tensioni che si possono sintetizzare nella contrapposizione tra l’edificazione
a macchia d’olio, da una parte, e la tutela paesaggistica dall’altra.
Nel
tempo la pressione edificatoria diventa talmente alta che interi lembi di bosco
vengono sostituiti da nuove case, ville, villette, schiere,
uni-bi-tri-quadrifamiliari, quando non direttamente i multipiano. I paesi si
espandono e si uniscono. Tutto in nome della “valorizzazione”, sia chiaro.
Quindi nuove strade, nuovi allacci di utenze a rete, moltiplicazione dei costi
per i servizi, non certo fronteggiabili con i ricavi millesimali degli oneri di
urbanizzazione percepiti dai comuni. Il fenomeno dell’abusivismo è stato (in
parte ancora esiste), tutto sommato marginale, anche se deflagrante. Il vero dramma è stato il cemento legale,
per così dire.
Il
“vero” sviluppo
I
Castelli Romani arrivano in pochi anni a quasi 300.000 abitanti (con un aumento medio di oltre l’1% annuo). A parole tutti si schierano
per la tutela ambientale, per la difesa del paesaggio. Peccato che molto spesso
a pronunciare questi proclami siano gli stessi, o gli eredi politici di coloro
che hanno catalizzato le trasformazioni territoriali, cambiato le destinazioni
dei suoli, autorizzato lottizzazioni, espansioni, deroghe; con poche differenze
riguardo ai diversi schieramenti politici. Qualcuno, come i recenti
amministratori del comune di Rocca di Papa, si spinge fino a favoleggiare un piano regolatore a “sviluppo zero” (per
il quale non si costruiscono nuove case). Ma basta dare un’occhiata alla
tabellina con gli incrementi di popolazione (da cui discendono quelli delle
nuove volumetrie edilizie), che questi obiettivi scoloriscono in esercitazioni
dialettiche per comizi. Rocca di Papa infatti nell’ultimo decennio ha un indice
di crescita del 20%, il doppio della media castellana, con un numero di
abitanti che passa dai 13.000 del 2001 ai quasi 16.000 del 2011.
Il
quadro generale è desolante. Tra
cinquant’anni sarà tutto costruito, anche quelli che attualmente sembrano i
lembi più intangibili della macchia: è scritto nei piani regolatori dei
Castelli. È lì che è sintetizzata la visione sul futuro del territorio. In una
battuta, gli obiettivi delle amministrazioni comunali. Il panorama, tranne
qualche rarissima eccezione (interessante il caso di Ariccia nell’ultimo
decennio), è generalmente improntato ad una edificazione indifferenziata e
omnicomprensiva.
L’attuale
sensibilità ambientale collettiva sconsiglierebbe di procedere in questa
direzione, ma in circolazione opera ancora qualche incombusto gladiatore del
cemento che promette il “vero” sviluppo,
in altre parole sempre e solo costruire
case. E non importa se nel frattempo l’acqua è finita e l’erogazione
subisce delle limitazioni, o si sia costretti all’emungimento di quella perenne,
a 500 metri di profondità. In campagne elettorali recenti, candidati anche
blasonati hanno sostenuto l’esigenza di estromettere interi boschi dalla tutela
ambientale, per aprirli all’esercizio venatorio. In un secondo momento, magari
a quello edilizio, è facile pensare.
Cosa
possiamo fare
Da stime
prudenziali il valore immobiliare delle attività edilizie legali, nei Castelli
Romani, si attesta intorno a non meno di 150
milioni di euro l’anno. La crisi attuale ha rallentato le tendenze in atto,
ma non le ha certo fermate. Ecco, bisogna fare proprio questo: pretendere uno
sviluppo senza consumo di suoli, senza ulteriori costruzioni. Non si tratta di
fermare tutto, al contrario, riconvertire
il patrimonio edilizio esistente, riqualificare
i centri storici, mettere in
sicurezza interi quartieri, comporta un sacco di lavoro.
Se, come
spesso accade, si scende nel particulare,
si sceglie la denuncia singola e si richiede legittimamente di esercitare un
diritto di controllo alla pubblica amministrazione, il rischio è che non si
percepisca la foresta tra gli alberi, si reprima un abuso per lasciare in piedi
un sistema. Un sistema che alimenta prima di tutto se stesso attraverso la dissipazione di un patrimonio collettivo
irriproducibile che si chiama paesaggio, per non citare tutte le altre
risorse ambientali che si perdono con la perpetuazione di un modello di
sviluppo onnivoro, antiquato e predatorio.
Si mette
in luce così la retroguardia culturale alla quale la nostra società è
condannata, per l’insipienza di alcuni e gli interessi di bottega di altri. In
entrambi i casi si tratta di minoranze numeriche, ma economicamente dominanti,
e pronte ad usare il loro potere.
Roberto Sinibaldi
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